Autobomba contro una colonna di mezzi della Folgore. Due blindo Lince distrutte: 6 soldati uccisi e 4 feriti. Uccisi anche 10 civili afghani e 55 feriti. La Russa ripete che la missione non si tocca. La Federazione nazionale della stampa rinvia la manifestazione di sabato 19.
«E’ stato un attacco suicida. Era diretto contro le forze italiane». Così ha detto all’Agence France Presse il capo della sezione investigativa della polizia di Kabul, poco dopo aver raccolto le testimonianze sulla dinamica dell’attentato che giovedì mattina è costato la vita a sei paracadutisti del 186esimo reggimento della brigata Folgore. Altri quattro militari italiani sono rimasti feriti per l’esplosione che ha travolto due veicoli blindati Lince, parte del convoglio che stava attraversando il centro della capitale afghana, nella zona delle rappresentanze diplomatiche internazionali. I quattro feriti non sarebbero in pericolo di vita. L’attentato è costato la vita anche a 10 civili afgani, mentre altri 55 sarebbero rimasti feriti. Con i sei morti di giovedì sale a 21 il numero dei soldati italiani morti in Afghanistan negli ultimi cinque anni [non tutti, però, caduti in combattimento]. E, dopo i messaggi di cordoglio delle più alte cariche dello stato, si riaprono le polemiche sulla missione italiana in Afghanistan. Rifondazione comunista, attraverso un comunicato del segretario Paolo Ferrero, ha chiesto l’immediato ritiro delle truppe. In senato, invece, il ministro della difesa Ignazio La Russa ha ribadito che la missione «non cambia». Nessuna rimodulazione, dunque, per il contingente di circa 2800 soldati italiani schierati soprattutto a Kabul e a Herat, nell’ovest dell’Afghanistan, dove l’Italia è responsabile del comando della regione militare locale. L’attentato, il più grave subito dalle truppe italiane dai tempi di Nassiriya, in Iraq, ha anche spinto la Federazione nazionale della stampa a rinviare la manifestazione per la libertà di stampa già convocata per sabato 19 settembre, a Roma, in piazza del Popolo. Una decisione stravagante, quella della Fnsi, visto che la guerra – meglio, l’assenza di informazione su di essa – avebbe avuto pieno diritto di asilo in una manifestazione per rivendicare l’autonomia dell’informazione rispetto alle pressioni della politica. In realtà, la missione afghana delle truppe italiane è già cambiata, e non da ieri. Da almeno due anni, il ruolo dei soldati italiani è sempre meno «costruttivo» e sempre più di combattimento. Lo hanno dimostrato poco prima dell’estate, i reportage del quotidiano spagnolo El Pais, che riferivano, e mostravano in video, gli elicotteri Mangusta, i bersaglieri e i parà impegnati nei combattimenti nella provincia di Farah, nell’ovest. Né quei reportage, né lo stillicidio di attentati che negli ultimi mesi ha avuto come bersaglio le pattuglie di militari italiani, hanno però portato, pubblicamente, a un dibattito sul senso e sulla conduzione della missione militare in Afghanistan, sulla quale, in Parlamento, c’è un consenso praticamente unanime. L’Italia non sembra avere, al di là del coordinamento con gli altri paesi che partecipano a Isaf e della pronta risposta alle richieste della Nato, una propria linea politica per quanto riguarda l’Afghanistan, ridotto ormai a rumore di fondo sulla scena mediatica nazionale. Gli ultimi stanziamenti per la missione militare, peraltro, mezzo miliardo di euro per sei mesi, dimostrano che non sono state recepite nemmeno le indicazioni dell’Onu e di quanti [comprese alcune voci nella Nato e al Pentagono] consigliano di «riequilibrare» la presenza internazionale, troppo sbilanciata sul versante militare a scapito degli aspetti sociali, economici e politici della ricostruzione del paese. L’attacco contro i soldati italiani a Kabul, peraltro, arriva nel momento di maggior fragilità per il governo afghano, guidato da Hamid Karzai, il presidente uscente la cui credibilità è stata minata dalle accuse di pesanti brogli nelle elezioni di metà agosto. In questo contesto, diventa sempre più difficile per i paesi impegnati nella missione Isaf-Nato, giustificare la propria presenza militare, nonché il suo costo umano ed economico.
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