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sabato 18 luglio 2009

Filosofi Italiani

venerdì, 03 ottobre 2008

GIANNI VATTIMO

213

Il filosofo del pensiero debole ha una certezza assoluta: nella vita si finisce per restare fedeli alle proprie origini. Per questo è marxista e cita a esempio i santi. Si dichiara cattolico eppure ammette l'eutanasia. E' omosessuale ma ha cercato di sposarsi. Per avere bambini, suoceri e nipoti.

Io donna - Corriere della Sera, 18 ottobre 2003, intervista a cura di Valeria Numerico

Gianni Vattimo, filosofo in cattedra all'università di Torino, deve la sua notorietà a numerosi lavori accademici, la fama invece soprattutto a due libri: Il pensiero debole, saggio del 1983 in cui, digeriti anni di studi su Nietzsche e Heidegger, propugna l'idea di una verità non più assoluta, ossia fondata su strutture metafisiche, ma umana perché frutto solo di interpretazione; e Credere di credere, una lunga riflessione del 1996, in cui argomenta la tesi di un Dio più caritatevole e mite di quello che ci offre la Chiesa interpretando le Sacre Scritture. Filosofia e religione, d¹altronde, sono i cardini su cui ha costruito la sua vita, anche di polemista tutt'altro che debole: eletto parlamentare europeo in quota Ds ha osato dire che D'Alema è un leader da rottamare; cattolico non ortodosso caldeggia i matrimoni tra gay e trova giuste cause all'eutanasia. Parlare di sé gli piace e sa farlo senza pudori, con un suo garbo piemontese e lampi di sfottò affinato ai tempi in cui faceva comunella con Eco.

"Fare dell'autobiografia mi viene facile, è un argomento (sorride) su cui non mi devo preparare. Come sono diventato quel che sono? Mah, la mia vita non ha avuto grandi storcimenti. Mi viene in mente il sottotitolo che Nietzsche mette a Ecce homo, un'autobiografia molto laudativa ed enfatica (forse era già matto quando la scriveva, ma è difficilissimo capire a quando risalga la sua follia, ha detto cose strane fin dall'inizio): come si diventa ciò che si è. Una frase ambigua, può voler dire "come diventi quello che sei", oppure "diventi solo quello che sei già"; considerando che, in quegli anni, aveva elaborato la teoria dell'eterno ritorno (nell'universo, animato da un movimento ciclico, tutto torna da dove è cominciato, ndr), si potrebbe interpretare più nel secondo modo. Per me vale nei due sensi, perché è vero che una persona cambia molto durante la vita, si prefigge scopi che prima non aveva, ma mantiene una certa fedeltà a quel che era all'inizio. Io per esempio sono stato religioso a lungo e adesso, in qualche modo, lo sono ridiventato. E penso la mia vita in termini abbastanza provvidenzialistici: se la credessi affidata soltanto a me, conoscendomi, tremerei tutto il giorno. Non per eccedere in citazioni ma c'è una bella riflessione nel racconto che fa di sé Edith Stein, filosofa tedesca, assistente di Husserl, morta in campo di concentramento benché da ebrea si fosse fatta suora carmelitana. Dice così: "So che c'è una storia segreta della mia anima e saperlo mi dà una grande fiducia, perché tutto non è nelle mie mani". Anch'io sento di avere un'anima segreta: l'educazione religiosa mi ha abituato a vedere una vocazione in tutto ciò che mi succede. Sa, ho cominciato a dodici anni a fare la comunione tutte le mattine come un piccolo santo (ride).

No, la mia non era una famiglia particolarmente devota, mia madre e mia sorella andavano a messa la domenica e mi ci portavano, tutto là. Mio padre? Non l'ho quasi conosciuto, è morto di polmonite quando avevo un anno e mezzo; faceva il poliziotto, mestiere di molti immigrati dal sud, infatti era calabrese. E dai cinque agli otto anni lo sono diventato anch'io: nel 1941 ci hanno bombardato la casa e siamo sfollati in Calabria presso dei parenti contadini; al ritorno a Torino avevo un tale accento che i miei compagni mi picchiavano come terrone. Se a un certo punto sono diventato un piccolo santo lo devo senz'altro alle De Gasperi, due sorelle con una drogheria e tutt'altro cognome ma così democristiane che le si chiamava così, le quali convinsero mia madre a mandarmi all'oratorio. E quindi non più merende solitarie a pane burro e cacao e letture di Jack London, ma pomeriggi passati con gli altri, libriccini edificanti e via via libroni. Nessuna esperienza mistica, no, né inclinazioni a farmi prete: ho sempre incontrato sacerdoti rispettosi della laicità, e della mia virtù, meglio sottolinearlo con tutte le storie di pedofilia di cui oggi si parla, tanto più che, come tutti ormai sanno, sono gay. Lo sono diventato per mio conto, però, non perché mi abbiano insidiato all'oratorio; magari ero anche bruttino, certo non sono stato oggetto di avance. E dunque sono grato all'educazione avuta perché è stata politica e socioculturale oltre che religiosa: diventato dirigente diocesano, il sabato pomeriggio lo passavo nelle parrocchie di campagna a fare apostolato laico, così ho imparato a parlare in pubblico; e a scuola, formato il gruppo di studenti cattolici militanti, dovevo confrontarmi con gli altri gruppi politici. I due impegni sono stati sempre abbastanza connessi, anzi proprio per combinare religione e politica mi sono iscritto a filosofia.

Bravo negli studi? Sono uscito dal liceo con nove in greco e dieci in filosofia (il professore era così esuberante che alla fine non si capiva se avesse parlato più lui o io) ma, dato che di famiglia ero abbastanza poco in denaro, iscrivermi all'università, invece che trovare impiego nel ramo assicurazioni (avevo già mandato la domanda), fu frutto di bilanci un po' sofferti. Per fortuna mi si presentò l¹occasione di lavorare in televisione, grazie a Filiberto Guala, grande amministratore delegato di una Rai ancora agli albori. Il corso di tre mesi, che feci a Milano, era frequentato anche da Furio Colombo e Umberto Eco, con loro divisi pure una casa. Umberto lo conoscevo fin dal liceo, era un dirigente nazionale della gioventù studentesca cattolica, quindi ogni tanto ci si vedeva, poi però, siamo diventati molto amici proprio negli anni dell¹università. Fu lui a presentarmi Luigi Pareyson, professore d¹estetica e suo maestro, che diventò poi anche il mio. Quanto all'esperienza in televisione fu molto divertente: con Umberto e Furio lavoravo a un programma settimanale politico e informativo che si chiamava Orizzonte. Ero l'anchor-boy della trasmissione totalizzando un centinaio di ore in diretta. Avrei potuto far carriera in tv? Mah, qualche volta ancora me lo chiedo, però il mio direttore spirituale, un monsignore con cui discutevo moltissimo anche di filosofia, e Pareyson mi spingevano a uscire da lì. Così nel 1956, quando silurarono Guala, un cattolico abbastanza di sinistra, molto volitivo me ne sono venuto via. Per mantenermi agli studi sono andato quindi a insegnare cultura, religione ed educazione civica in una scuola cattolica per operai finanziata da varie aziende.

Altra bella esperienza: andavo anche alle manifestazioni con i ragazzi, fui persino arrestato durante un picchettaggio alla Riv, fabbrica che produceva tondini per la Fiat. Uscì tutto sull'Unità, con Paietta che mi conferiva la tessera d'onore della gioventù comunista. Il preside della scuola mi fece capire che non ero più gradito, e il mio direttore spirituale mi trovò un posto alla media inferiore del Rosmini. Sì, lui e Pareyson mi hanno tracciato il cammino (sorride), sono sempre stato un po' gregario, lo ammetto. Nel '59 mi sono laureato e, grazie a una borsa di studio, sono andato in Germania. Ci sono restato due anni, e là, un po' per fatti miei, un po' per la lontananza ho preso le distanze dal mio padre spirituale e ho smesso di andare in chiesa. No, non credo sia stato per vera autoconsapevolezza: si diventa davvero consapevoli di sé quando si viene messi davanti a scelte radicali e lì si svolta, ma di svolte così non ne ho avute.

Neanche nel 1968, quando sono diventato maoista, ho scelto in modo lacerante, anzi mi è parso naturale: convalescente dopo un'operazione d'ulcera avevo avuto il tempo di leggere dei libri e rendermi conto che la critica al mondo tecnicizzato moderno di Heidegger non era così lontana da quella marxista di Lukacs. Cercai di spiegarlo a Pareyson, quando andai a dirgli della mia conversione, ma lui, sulle prime, si inferocì: di lì a poco ci sarebbe stato il concorso a cattedra (la commissione che doveva valutarmi era formata da fior di cattolici). Alla fine però vinsi, persino a discapito di Eco (in lizza c'era pure lui) che magari lo meritava più di me. Ma Pareyson era un uomo formale, chiedeva ai suoi allievi presenza e fedeltà di studi, e Umberto stava ormai a Milano, frequentava Enzo Paci, filosofo d'altra scuola, si occupava già di semiotica. In più (ride) non gli mandava gli auguri a Natale. Io, invece, continuavo a studiare Heidegger, facevo leggere a Pareyson quel che scrivevo, lo sentivo al telefono ogni pomeriggio.

Ma no, neppure riconoscermi pubblicamente gay è stato l'esito di una scelta sofferta: che il Fuori mi candidasse come suo rappresentante nelle file dei radicali lo lessi anch'io sul giornale, e a quel punto che potevo fare? La sofferenza, semmai, c'era stata prima: l'abbandono del mio direttore spirituale era conseguente al non voler confessargli la mia omosessualità. Per un bel po' l'avevo considerata una fase: "poi ti passa, quando ti sposi tutto si sistema", mi avevano inculcato psicologi e confessori. E fino al 1960, cioè fino ai ventiquattro anni, quando ho avuto il primo rapporto con un uomo, l'inclinazione era stata infatti latente, non volevo riconoscerla, accettarla. Mi sono fatto dei problemi terribili allora: l'ulcera è venuta da lì. Leggevo di filosofi greci, come Aristotele, che avevano lasciato l'eredità divisa tra i figli, moglie e il proprio amante, quindi continuavo a coltivare delle relazioni affettive con ragazze, pensando sempre di trovare quella giusta. Desideravo moltissimo avere una grande famiglia, con figli, suoceri, nipoti, proprio perché la mia non lo era. Mi dicevo: "Sarà possibile se trovo una ragazza di mentalità non troppo chiusa, ristretta". E, in fondo, l'ultima con cui sono stato, a cui ho voluto molto bene e vedo ancora, forse avrebbe anche sopportato la mia poliformia sessuale, ma la famiglia no. Il padre ci perseguitava, ci faceva seguire dai poliziotti, si informava dal questore sulle mie frequentazioni. Ricordo un nostro colloquio, una vigilia di Natale: "Ci lasci in pace", gli dicevo "magari la cosa finisce da sé". Per carità! Infatti la figlia ha ceduto e mi ha lasciato. No, non sarebbe stato semplice neppure se non l'avesse fatto, adesso non me lo aspetterei nemmeno, ma allora ero ingenuo.

Quel che mi fa arrabbiare è che noi piccolo borghesi siamo obbligati all¹autenticità, mentre conosco persone andate avanti per anni con triple, quadruple relazioni. Grandi borghesi, palesamente gay, ingiudicabili per status. A dire il vero io sono stato molto fortunato: quando uscì sui giornali la mia candidatura tra le file del movimento gay era il '75, la cosa non mi penalizzò: poco dopo venni nominato preside di facoltà. La carriera è stata importante? Eh, abbastanza: un po' mi ha rassicurato, non godendo io di ricchezze di famiglia o parentele; un po' mi ha aiutato ad accettare la pubblicità di essere gay, temevo molto che il frocio nuocesse al filosofo. Pareyson? Non fiatò dopo aver letto i giornali, e comunque era venuto a colazione a casa mia quando già vivevo con Giampiero: è stato il mio compagno dal '68 al '92, quando è morto di Aids, dopo sei anni di tribolazioni. Vede? E' quel ragazzo lì con il gatto (indica una foto appesa in salotto), eravamo in Grecia. Con noi stava Sergio, un giovane amico di Mondovì, che è rimasto con me dopo la morte di Giampiero, diventando il mio compagno. A febbraio di quest'anno si è scoperto un cancro e ad aprile è mancato. Che vita è stata la sua negli ultimi tempi! E che coraggio gli è uscito, era lui che consolava sua madre e me (silenzio)... Momenti drammatici nella mia vita ce ne sono stati, quindi, ma per risvolti tragici oggettivi.

Adesso? Cerco di viaggiare il più possibile, per non deprimermi troppo. Ecco sì, la politica ancora mi appassiona moltissimo, i miei residui di passione li impiego là, forse è il solo campo in cui non sono un moderato. Se ho un buon carattere? Sì, credo di sì, sfottere e sfottermi è un esercizio rodato fin da ragazzo. Ma gli amici con cui faccio famiglia dicono che ora in casa mi immusonisco. In effetti sono ansioso da quando sono solo, temo persino di diventare avaro, ma se resto rimbecillito su una sedia a rotelle, che faccio? Mi vendo quell'orologio là sopra? E che altro? Diciamo che sto assistendo al mio invecchiamento (sorride) curioso di capire come diavolo diventerò quel che sarò. Quando però esco il sabato sera e percorro via Po, vedendo tutti quei giovani che se ne vanno al cinema, a ballare, mi rodo d'invidia. Sentimento che, se avessi figli, magari non proverei, perché andrei al cinema e a ballare attraverso loro. Ma, come diceva Pasolini, "Io sono un figlio che non può essere padre". Mi consola pensare che, anche in questo, c'è stata vocazione".

Gianni Vattimo (Torino 1936). Allievo di Pareyson all' Università di Torino è stato ed è uomo di cariche e di incarichi assai rilevanti in ambito accademico ,politico e giornalistico.

1 commento:

The Best ha detto...

Quale e' la percentuale di froci fra i filosofi? Forse diventano forci perche non hanno niete da fare/ ahahahaahahaahahaha

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