Vogliamo che la legge arrivi in luoghi tenebrosi come Piazza-Italy,la chat italiana di Aol, dove si commettono violazioni vergognose dei dirtti civili.

martedì 24 febbraio 2009

Un siciliano di valore: il contrasto con la feccia del chat e' drammatico

www.Napoli.com E’ morto Candido Cannavò Dell’uomo siciliano, e per giunta catanese, aveva tutte le virtù: il sorriso sempre pronto sul volto bruno, la parlata musicale, la cavalleria, la lealtà, la fermezza vellutata. Candido Cannavò è stato per tutti noi, anche dall’alto del suo ruolo di direttore, un collega amabile, disponibile, di cuore, alla guida de “La Gazzetta dello Sport” per vent’anni raccogliendo l’eredità di Gino Palumbo. Ci ha lasciati a 79 anni. Un ictus l’ha colpito nella sua vera casa, alla “Gazzetta”, mentre era a mensa con altri colleghi e aveva appena scritto l’ultimo dei suoi deliziosi articoli. La competenza, l’onestà intellettuale, l’amore appassionato e vero per lo sport nutrivano il suo stile garbato, misurato anche nelle polemiche più aspre, umano nelle vicende infauste del mondo che amava e che non tradì mai anteponendo la verità a tutto, però senza essere mai un censore arcigno e un moralista d’occasione. Un campione tra i campioni per la dedizione, la passione, la vita intera dedicata al giornalismo da quando, giovanissimo, “La Sicilia” gli chiese di scrivere qualcosa. Era il 1948 e Candido aveva diciott’anni. Si era innamorato dell’atletica e l’aveva studiata appassionatamente, mai superficiale, sempre documentandosi con cura. Scrisse i primi “pezzi” sugli atleti azzurri alle Olimpiadi di Londra. Forse quello sul discobolo Consolini fu il suo “debutto”. La collaborazione si intensificò. Candido ricordava con commozione il suo primo stipendio: 18mila lire nella busta blu del quotidiano siciliano. Alla “Gazzetta” cominciò da corrispondente da Catania. A Milano non sfuggirono il suo impegno, la puntualità, il garbo, l’attaccamento alla professione, la cultura che arricchiva il suo lavoro, cultura sportiva e d’intelletto. Presto fu chiamato a lavorare nella redazione centrale. Erano i primi anni Sessanta. Al primo “invito” milanese Candido resistette. Aveva due figli piccoli. Era diventato caporedattore de “La Sicilia”. Ma aveva anche una moglie milanese, Franca, istruttrice di danza spagnola, che lo incoraggiò. Fece il “gran salto” nel 1981, il giorno di capodanno, chiamato da Palumbo alla vicedirezione de “La Gazzetta dello Sport”. Il suo animo meridionale sposò magnificamente l’efficienza milanese. Non fu mai un emigrante perché seppe calibrare le sue forti radici con la più asciutta realtà lombarda. Fu un milanese meridionale in tutto e per tutto, generoso, appassionato, lavoratore instancabile, mai cupo, sempre sorridente. A quei tempi, poi, Milano era città generosa e anche romantica. Catania era sempre nel suo cuore. Vi aveva vissuto un’infanzia difficile durante la guerra, orfano del padre, la mamma sarta a dovere tirar su sei figli. Era orgogliosa di quella madre che, negli anni Venti, andava a Parigi ad affinare il suo mestiere. Catania era città di gusto e di eleganza. I sei figli si laurearono tutti. Candido si iscrisse a Medicina. Frequentò i corsi per quattro anni, poi la passione per il giornalismo l’attrasse completamente. Divenne dottore in giornalismo, se così possiamo dire, una laurea piena sul campo del mestiere più bello del mondo. Palumbo ne fece presto il suo “delfino” apprezzandone le qualità umane e professionali, la dedizione assoluta al giornale, la grande signorilità siciliana. Candido divenne direttore della “Gazzetta” nel 1983, a marzo. Raddoppiò i successi di Palumbo arricchendone la linea editoriale. Venti anni alla “rosea” con sempre nuove conquiste mentre le tecnologie favorivano lo sviluppo del giornale e le numerose iniziative. Smessa la direzione, Candido restò legato alla “Gazzetta”, e la “Gazzetta” a lui. Non poteva essere diversamente. Erano una cosa sola. Nei vent’anni da direttore, Candido condusse battaglie memorabili per uno sport leale, corretto, pulito. Amabile con tutti i dirigenti dei più alti gradi, non gli perdonò mai gli errori, le manfrine, i compromessi. Senza scagliarsi, senza forzature, ma puntuale e garbatamente inesorabile. Amò lo sport e i suoi campioni con l’anima di un bambino. Amò tutti noi che lo conoscemmo e ne condividemmo l’avventura dall’epoca delle linotypes ai computer. Sul computer, prima di essere colpito dall’ictus, aveva lasciato l’ultimo suo articolo. Quella sua rubrica quotidiana, “Fatemi capire”, era sempre una carezza per il mondo che amava.

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